A quarant’anni dall’eccidio di Wagalla. La lotta per la verità di Annalena

Cosa accadde a Wagalla:

Wajir – Kenya, Venerdì 10 Febbraio 1984, scatta un’operazione militare che mira a sterminare l’intera tribù dei Degodia (oltre 50.000 uomini). Nella notte alcuni camion militari vanno a prelevare dalle capanne tutti gli uomini, compresi i ragazzini e gli anziani; vengono portati a Wagalla, a poche miglia da Wajir (nella regione del Nord-Est del Kenya) all’interno di un aeroporto militare in disuso, recintato da filo spinato. Lì vengono rinchiusi per 4 giorni e 4 notti senza cibo né acqua. Intanto nel villaggio i soldati bruciano le capanne “alla ricerca – dichiarano – di armi nascoste”. Ali Guhad, 30 anni, paralizzato, viene arso vivo (è uno dei “figli” di cui Annalena si prende cura). Sino al lunedì successivo non si sa nulla dei prigionieri quando al villaggio arriva un uomo ferito che racconta le atrocità che i soldati stanno commettendo. Persone bruciate vive con la benzina, altri stesi a terra e sui loro corpi i segni degli scarponi chiodati dei soldati, violenze e angherie anche psicologiche di ogni tipo. Tenuti sotto il sole equatoriale , mentre i soldati rovesciano davanti a loro autobotti di acqua.

Incurante delle minacce della polizia, Annalena sale sulla Toyota su cui dipinge una grande croce rossa. Affitta due camion e si addentra nel deserto, per soccorrere i superstiti e recuperare i corpi dei morti (diversi vengono sepolti nel centro di riabilitazione ). Un somalo fotografa montagne di cadaveri che vengono inviate ad Amnesty International e alle ambasciate di alcuni Stati occidentali. Alle minacce di sospendere gli aiuti e i rapporti internazionali, il governo del Kenya degrada i capi dell’operazione. che si arresta a circa un migliaio di morti, ma bisogna eliminare una scomoda testimone. Dopo un anno di interrogatori e di indagini Annalena viene espulsa dal Kenya “come persona non gradita”. Se ne va in silenzio per paura di ripercussioni sui suoi bambini e malati del Rehab Center

Nella sua testimonianza in Vaticano, 2001, Annalena per la prima volta parlò apertamente del massacro:

[…] Il governo del Kenya ten­tò di commettere un genocidio a danno di una tribù di nomadi del deserto. Avrebbero dovuto sterminare cin­quantamila persone. Ne uccisero mille. Io riuscii a impedire che il massacro venisse portato avanti e a con­clusione.  Per questo un anno dopo fui deportata. Tacqui nel nome dei piccoli che avevo lasciato a casa e che sarebbero sta­ti puniti se io avessi parlato. Parlarono invece i Somali con una voce e lottarono perché si facesse luce e ve­rità sul genocidio. Sono passati sedici anni e il Governo del Kenya ha ammesso pubblicamente la sua col­pa, ha chiesto perdono, ha promesso compensazioni per le famiglie delle vittime. I giornali e la BBC hanno par­lato a lungo del mio intervento. E oggi molti dei Somali che avevano remore contro di me mi hanno ac­cet­tato e sono diventati miei amici. Oggi sanno che ero pronta a dare la vita per loro, che ho rischiato la vita per lo­ro. Al tempo del massacro, fui arrestata e portata davanti alla corte marziale … Le autorità, tutti non So­ma­li, tutti cristiani, mi dissero che mi avevano fatto due imboscate a cui ero provvidenzialmente sfuggita, ma che non sarei sfuggita una terza volta… poi uno di loro, un cristiano praticante, mi chiese che cosa mi spin­ge­va ad agire così. Gli risposi che lo facevo per Gesù Cristo che chiede che noi diamo la vita per i nostri amici. O­ra io ho esperimentato più volte nel corso della mia ormai lunga esistenza che non c’è male che non ven­ga portato alla luce, non c’è verità che non venga svelata. L’importante è continuare a lottare come se la ve­rità fosse già fatta e i soprusi non ci toccassero, e il male non trionfasse. Un giorno il bene risplenderà.

Occorre sottolineare una lettera che Annalena scrive nel marzo 1984 a pochi giorni dall’eccidio, un testo intenso di richiesta di verità e di aiuto, indirizzato al Vescovo di Garissa (lettera che non avrà risposta). Annalena chiede verità e descrive anche l’assenza dentro al suo animo di odio verso gli assassini della sua gente, mentre viene portata innanzi ad una finta commissione d’inchiesta che mira a estorcerle una verità diversa da quella accaduta.

Gli uomini di Chiesa debbono sapere quello che è successo: TUTTO, TUTTA LA VERITÀ! Per poter parlare prima di tutto a coloro, cristiani, che possono decidere le sorti del paese: al presidente, ai ministri, alle persone influenti, e poi al popolo. Parlare di conversione, di amore, di non violenza, di pace, di giustizia nel nome di Gesù Cristo. PARLARE senza paura ai grandi, parlare la verità, senza nulla nascondere: è successo quello che è successo. Chi ha fatto questo? Una nazione cristiana? Può il cardinale tacere? Possono i vescovi tacere? Possono i ministri delle altre denominazioni tacere? Possiamo noi cristiani tacere?

“La cosa più meravigliosa, tutto frutto della fedeltà e della grazia di Dio è che io non ho neppure mai sentito, mai provato nessun sentimento né di odio, né di violenza contro quelli che hanno condotto l’operazione. Continuo ad andare loro incontro con animo pulito, sgombro, amico. È una grazia tale, che ne rimango io stessa attonita”


Più avanti nel tempo, febbraio 2003, un rappresentante del Governo del Kenya giunge a Borama in Somalia da Annalena, piange tutto il tempo che resta con lei, la informa che Moi [ex presidente del Kenya al momento del massacro di Wagalla] è stato deposto e che stanno preparando il suo “ritorno trionfale in Kenya”. Ma Annalena sceglie ancora una volta la strada della nonviolenza, scrive così:

… Io non voglio nessuna riabilitazione. Io non voglio raccontare il massacro. Io non voglio imperversare contro i criminali di allora. […]

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